Agli inizi del ‘500, in un interessante slittamento semantico, il termine Cortigiana, che fino a quel momento aveva indicato la nobildonna istruita e frequentatrice dei salotti culturali dell’alta società, a cui rimanda la stessa etimologia del termine, dal latino curia, ovvero corte, diviene sinonimo di concubina.
Le cortigiane, però, non erano semplicemente meretrici che vendevano piaceri carnali sotto compenso; non erano nemmeno le cosiddette “donne della candela”, le povere frequentatrici di bui e malsani retrobottega, o sordidi bordelli dove, nella prestazione di una sera, trovavano occasione di vivere un altro giorno ancora.
Le cortigiane erano fanciulle istruite, elegantemente vestite ed educate all’arguzia e alla buona dialettica, doti con cui speravano di attrarre l’attenzione degli uomini più potenti del tempo, nella speranza che la loro protezione ne avrebbe garantito ricchezza e benessere.
In un mondo in cui alle donne era preclusa ogni tipo di scelta, se non quella di essere madre e moglie di qualcuno, le cortigiane venivano considerate come le uniche donne indipendenti: potenti e ammirate, le loro illustri relazioni amorose valsero successo e ricchezza.
Una cortigiana era un’amante, una compagna segreta, una trasgressione di cui molti uomini non sapevano rinunciare. Questa fu la fonte del loro potere.
E sebbene gran parte del mondo politico e religioso del tempo fosse in qualche modo legato al mondo del cortigianesimo, la Roma santa e papale non poteva permetterne la legalità, e relegò le cortigiane nella cosiddetta Contrada dell’Ortaccio, il ghetto delle meretrici, il quartiere dell’amore mercenario, istituito da papa Pio V Ghislieri nel 1569. Era il volto nascosto degli amori venali di Roma, il cuore profano della sacra Urbe.