La fullonica e la tassa sull’urina

Silvia Tofoni

Le fulloniche erano una delle attività più redditizie nell’Antico Impero Romano. Oggi le potremmo definire le antesignane delle moderne “lavanderie”, ma l’articolazione interna delle attività era ben più complessa. Una fullonica non si limitava infatti alla semplice lavatura di vestiti sporchi, ma si concentrava soprattutto nel trattamento di tessuti nuovi, opportunamente lavorati per essere poi essere esposti e venduti al mercato. Un’altra attività molto comune era infine la tintura dei panni: il colore nell’abbigliamento romano era sinonimo di ricercatezza e gusto estetico.

Fullonica di Stephanus, Pompei

Le fulloniche erano dotate di spazi peculiari per il lavaggio, caratterizzati da piccoli muretti laterali che affiancavano bacini ovoidali pestatoi, denominati lacunae fullonicae. In tali contenitori i tessuti nuovi o usati venivano pestati dai fullones che, appoggiandosi ai muretti laterali e attraverso un’operazione definita saltus fullonicus, ripulivano i panni con l’ausilio di soda o urina dalle note proprietà sbiancanti. Vasche più ampie poste a diverse altezze servivano per i risciacqui da effettuarsi con creta o argille, che, al contrario, conferivano morbidezza ai tessuti induriti dalle sostanze alcaline. Completavano le fulloniche ampi spazi pavimentati in cui i tessuti venivano sospesi sulla viminea cavea, una sorta di gabbia in vimini, che permetteva ai panni di impregnarsi di vapori di zolfo per essere sbiancati. In seguito venivano appesi per essere asciugati, pettinati e sottoposti infine al pressoio fullonico, detto prelum, per la stiratura.

Le fulloniche erano dunque note per avvalersi delle proprietà sbiancanti dell’urina nella lavorazione dei tessuti, ma in realtà quest’ultima era utilizzata anche in diverse altre attività lavorative, e costituiva un fiorente e lucroso commercio al punto che l’imperatore Vespasiano, nel tentativo di risanare le casse dello Stato prosciugate dagli sperperi di Nerone, ne impose la tassazione, ovvero la celebre vectigal urinae. La tassa si applicava sull’acquisto dell’urina, appositamente raccolta nelle latrine, ed era regolarmente versata non solo dai fullones, ma anche dai conciatori, che la impiegavano per ammollarvi le pelli e rimuovere più facilmente i peli animali. L’urina era ritenuta preziosa anche per la cura di alcune malattie e, poiché ricca di fosforo e azoto, applicata anche nella coltivazione dei campi. L’imperatore Vespasiano comprese immediatamente il vantaggio che avrebbe potuto trarre da questo commercio imponendo la nuova tassa sull’urina, al punto da pronunciare la famosa frase riportata da Svetonio, “pecunia non olet”, ovvero “il denaro non ha odore”, in riferimento alle rimostranze mostrate da suo figlio Tito. La reazione del popolo romano, indignato della bizzarra tassa, non tardò ad arrivare e, in una sorta di “pasquinata” dell’antica Roma, cominciò a chiamare col nome dell’imperatore gli orinatoi pubblici, che in effetti sono ancora oggi, per una beffa del destino, chiamati vespasiani. 

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