Uno dei complessi più suggestivi di Ostia antica è lo straordinario Thermopolium di Via di Diana. Il thermopolium, dal greco ϑερμοπώλιον, termine formato dall’unione delle parole termos (caldo) e poleo (vendo), era un luogo di ristoro in uso nell’antica Roma, dove era possibile acquistare e consumare bevande calde e cibo pronto per il consumo, non particolarmente elaborato, sia in piedi che seduti.
Questo ambiente commerciale, di origine greca, era più comunemente chiamato dai romani popina. Ne sono stati rinvenuti diversi a Pompei ed Ercolato, anche più recentemente, e quello di Ostia ne costituisce un pregevole esempio per l’ottimo stato di conservazione: è ancora possibile infatti godere della struttura originale e dei tipici mobili di arredo di questo esercizio commerciale, dal bancone per la vendita ai contenitori di olio e bevande.
Ricavato nel III secolo d.C. all’interno di un precedente blocco edilizio, il Thermopolium era sicuramente fra i locali più frequentati di Ostia, perché situato a poca distanza dal Foro e dirimpetto alle insulae di Via di Diana, grandi caseggiati su più piani con appartamenti che si affacciavano su un cortile interno.
Il locale è costituito da due ambienti: il vano centrale adibito alla vendita vera e propria, ed una seconda stanza identificata come cucina. Ai lati degli ingressi presenta alcune panche in muratura, dove i clienti potevano sedersi e consumare i pasti, mentre sul retro è ancora visibile un piccolo cortile dotato di una fontana che permetteva agli avventori, durante la stagione più calda, di consumare i pasti all’aperto. Di qui una scala portava alla dispensa sotterranea, detta cellarium.
Caratteristico di ogni Thermopolium è il lungo e largo bancone rivestito di lastre di marmo, ove erano incassate, in apposite forature, i dolii, grosse anfore di terracotta per le vivande, liquidi o granaglie, rinvenuti anche diffusamente interrati per metà altezza, così da conservare al meglio cibi e bevande.
Nella parte inferiore del bancone era spesso presente una piccola nicchia, ove era possibile disporre di un continuo rifornimento di acqua corrente utile soprattutto per il lavaggio delle stoviglie.
Il Thermopolium di Via di Diana conserva inoltre parte della decorazione originaria degli ambienti, come la suggestiva “natura morta” lungo parete sopra il mobile da scaffalatura, variamente interpretata: il piatto a sinistra, di più semplice identificazione, con piselli e una rapa; un bicchiere al centro contenente delle olive; due elementi tondeggianti appesi a un chiodo a destra, variamente descritti dagli studiosi come formaggi, meloni, melograni o cembali. L’insegna alluderebbe dunque a tutto ciò che la popina di Via di Diana poteva offrire: cibo, bevante e la musica tipica di un ambiente gioviale.
Il mortaio marmoreo posto su uno degli scaffali era usato per la preparazione delle spezie che costituivano l’ingrediente base del conditum o piperatum, la bevanda più diffusa fra quelle servite nelle popinae, costituita da vino mescolato a pepe ed altre sostanze aromatiche.


Quali erano le abitudini alimentari dei romani? La cena era considerata il pasto principale della giornata, mentre la colazione ed il pranzo si svolgevano in maniera piuttosto frugale e frettolosa. La colazione era molto semplice, a base di pane, formaggio, olive, miele e fichi, mentre il pranzo veniva consumato molto presto, intorno a mezzogiorno, spesso in locali adibiti, consumando cibi precotti, stufati, pane, formaggio. Spesso i piatti venivano accompagnati dal garum, una salsa di pesce fermentata particolarmente apprezzata dai romani ed usata come condimento. Pressoché quotidiano invece era il consumo del mulsum, il tipico vino romano addolcito con il miele. Ne esistevano diverse modalità di produzione e categorie qualitative: il più apprezzato era quello ricavato dal mosto grezzo che, una volta miscelato con il miele, veniva lasciato riposare in apposite anfore per almeno un mese, per poi essere filtrato e posto nuovamente a riposo. Il mulsum era noto anche per le sue proprietà curative contro i dolori di stomaco.
Un’altra bevanda molto diffusa, soprattutto presso i legionari per la sua economicità, era la posca, ottenuta miscelando acqua e aceto di vino, così da ottenere una bevanda dissetante e leggermente acida, alla quale potevano essere aggiunte erbe aromatiche e miele. Infine i romani facevano largo uso dell’idromele (o acqua mulsa), una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di una miscela di acqua e miele.
A causa dell’elevato costo, l’idromele era riservato ai patrizi e molto utilizzato nel corso di banchetti e cerimonie. Si tramanda che, in occasione dei matrimoni, si usasse consumarne nel mese lunare successivo alla cerimonia, così da propiziare la procreazione di eredi maschi. Parrebbe che per questo motivo ancora oggi si usi definire il primo periodo dopo il matrimonio “Luna di miele”.
Un altro alimento molto usato era il silfio, una pianta originaria della Cirenaica (odierna Libia), oggi estinta, e molto simile all’odierno finocchio. Attraverso una specifica lavorazione, se ne estraeva un filtro molto utilizzato in cucina e dalle straordinarie proprietà mediche: era usato contro la febbre e il mal di gola.

Naturalmente il Thermopolium di Via di Diana non è l’unico nel suo genere. Ostia era un centro vitale e cosmopolita, continuamente attraversato da mercanti e forestieri provenienti da ogni parte dell’impero, e locali ricettivi di vario genere erano spesso presenti lungo le più importanti vie del traffico cittadino, o appositamente collocati in posizioni strategiche. Oltre alle tipiche osterie (o popine), frequenti erano anche le cosiddette mescite o tabernae vinariae, luoghi ove era possibile consumare rapidamente, in piedi, una bevanda, magari accompagnata da una piccola focaccia, detta offula.
Nonostante la forte attrattiva archeologica che rivestono oggi questi locali commerciali, che ci tramandano usi e costumi di una società ormai passata, le fonti latine li dipingono come luoghi di dissoluzione sociale e morale, il regno dell’ubriachezza e del vizio, e possibili centri di riunione e agitazione politica. Per questo frequentemente le popinae furono oggetto di restrizioni imperiali, come quella escogitata dall’imperatore Claudio, che imponeva di servire esclusivamente cibi a base di vegetali: escludendo la carne infatti si sperava di provocare la diminuzione della frequenza di questi luoghi.
Città di traffici commerciali, caratterizzata da un continuo flusso di viaggiatori, Ostia era naturalmente fornita di strutture più propriamente ricettive, ovvero le cauponae (da caupo, oste), locali che permettevano ai viaggiatori di alloggiare e ristorarsi dopo un lungo viaggio, spesso collegati ad uno stabulum, ovvero una stalla con abbeveratoio per gli animali.
In una città di porto come Ostia infine ci si aspetterebbe di trovare una certa quantità di bordelli, forse più che a Pompei, dove ne sono stati attestasti con certezza ben venticinque. Invece gli archeologi non sono stati in grado di rinvenire nessuno immediatamente riconoscibile come tale, anche attraverso l’ausilio delle tipiche pitture o graffiti come nella città campana.
La spiegazione più verosimile di questa strana assenza, che non deve portarci a pensare che Ostia ne fosse sprovvista, è che i lupanari erano spesso collocati ai primi piani degli edifici, e ad Ostia sono quasi completamente perduti. Oltretutto non sempre la prostituzione era esercitata in luoghi specifici, appositamente costruiti ed adibiti a questo scopo. Spesso erano “servizi” proposti ai clienti di un’osteria o di una locanda.
