AB URBE CONDITA: IL NATALE DI ROMA.
Espressione latina più che mai nota a tutti: “ab urbe condita”, ovvero “da quando la città è stata fondata”. E dobbiamo risalire esattamente al 21 aprile 753 a.C., in un viaggio indietro nel tempo di oltre 27 secoli. Come facciamo a sapere che Roma fu fondata esattamente in quell’anno? Sicuramente ce lo dicono le fonti, ovvero gli scrittori romani tramandandoci la storia del loro passato, come Varrone o Plutarco. E’ stato un calcolo certamente ardito ma per capire veramente cosa sia successo in quel lontano passato è necessario mettere le cose nella giusta prospettiva. Roma non si è fatta in un giorno, ce lo dice anche il proverbio, e barcamenarsi tra realtà e mito in un epoca in cui forse non esisteva una vera distinzione tra verità storica e identità culturale può confondere senza i necessari punti di riferimento. E allora quanto di vero c’è nel mito di Romolo e Remo? Tralasciando le parti più aneddotiche della storia, dobbiamo realmente credere che Romolo possa avere una sua identità storica? E anche ammettendo la sua presunta storicità, come ha materialmente fatto per fondare Roma, per creare il suo popolo? Insomma da dove vengono i Romani?
Il territorio del Latius Vetus era popolato ben prima dell’arrivo di Enea, Evandro e Romolo. Questi popoli antichi avevano creato aggregazioni abitative simili a piccoli villaggi di capanne, sparpagliati e spesso collocati in posizioni strategiche. Nel sito della futura Roma essi si dislocavano lungo i colli, che non corrispondevano assolutamente a quelli della lista canonica. Roma nacque così, dall’aggregazione di questi villaggi sparsi, ovvero per sinecismo. E allora Romolo cosa c’entra? Ecco la risposta: il valore culturale del mito determinò l’identità del popolo romano. Ma il discorso è lungo e apre a nuovi scenari. Ad esempio la lista dei famosi “7 re di Roma”. E se vi dicessi che non furono affatto 7?
Come avrete capito, intavolare un discorso sulle origini di Roma è più che mai rischioso, soprattutto se ci si addentra in questioni archeologicamente stimolanti ma lungi dall’essere esaurite, come nel caso della celebre Via Sacra. Era uno degli assi viari più importanti di Roma, ed attraversava la valle del Foro in tutta la sua lunghezza.A lungo gli archeologi si sono interrogati su quale fosse il suo tracciato d’origine, cercando di trovare i riscontri delle informazioni tramandateci dalle fonti antiche nelle evidenze archeologiche. Se si arrivasse a definire inequivocabilmente il percorso dell’antica Sacra via, anche il problema di dove collocare i monumenti che, secondo la tradizione, vi si affacciavano sarebbe risolto. Il compito è tutt’altro che semplice ed i testi antichi sono spesso discordanti tra loro. In questa precarietà di certezze, anche l’interpretazione del dato archeologico può essere fuorviante. C’è chi dice che la Sacra via cominciasse nei pressi del Sacello di Strenia alle Carinae, chi invece ne delinea un tratto più breve; per alcuni la Regia ne costituiva il punto finale, mentre per altri essa si estendeva fino al Campidoglio. Non c’è unità neppure nel definire quale fosse la cosiddetta “summa via sacra” di cui ci parlano le fonti, variamente interpretando il significato dell’aggettivo latino summus: il suo punto più alto, ovvero quello più importante per la presenza dei principali edifici religiosi dell’antichità? Ciò che è certo è che il percorso della Via Sacra fu alterato nel corso del tempo, soprattutto a causa del disastroso incendio del 64 d.C., a seguito del quale venne avviato un grandioso progetto di riorganizzazione urbanistica dell’area del Foro, cominciato da Nerone e portato avanti dai Flavi. In questo contesto la Via Sacra venne completamente riorganizzata e messa in asse, con grandiosi portici e tabernae a cingerne i lati, assumendo sempre più l’aspetto di un moderno boulevard. Il discorso è tutt’altro che esaurito. Ancora oggi, venendo dalla Valle del Colosseo e proseguendo verso l’Arco di Tito, si legge il cartello VIA SACRA, che ci suggerisce come quel piccolo tratto di strada in salita che parte dalle rovine della Meta sudans sia da considerarsi esso stesso parte dell’antico asse stradale. Le recenti indagini archeologiche, tuttavia, propongono di abbandonare l’interpretazione tradizionale, suggerendo invece di identificare quel tratto di strada col meno noto Vicus Curiarum, nei pressi delle Curiae Veteres. A cosa credere dunque?
E se ci si addentra a parlare del mito di fondazione di Roma? Il discorso diventa ancora più spinoso. “C’era un sacro luogo, coperto da un folto bosco, e una roccia cava dalla quale sgorgava una sorgente; si dice che il bosco fosse consacrato a Pan (…). In questo luogo giunse la lupa e si nascose. Il bosco non esiste più, ma si vede ancora la grotta nella quale sgorga la sorgente, costruita a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo (…). Questo posto i Romani chiamavano il Lupercale”. Così ci tramanda Dionigi di Alicarnasso nelle sue Antichità Romane. All’ombra del ficus ruminalis, alle pendici del Palatino, si arrestò la cesta che trasportava i gemelli di Roma, frutto della castità violata di una vestale che non si era potuta negare al Dio della guerra. E salvati dal destino di ciò che sarebbe dovuta diventare Roma, vennero allattati dalla lupa ed allevati nell’oscura grotta del Lupercale. Così narra il mito di Romolo e Remo, legati da un fato che ne volle solo uno vincitore, e quel passo di troppo oltre il Pomerium sentenziò il futuro di quella che sarebbe divenuta la capitale del più grande impero del mondo antico. Poetico e tragico al tempo stesso, al mito di Roma va restituita la giusta interpretazione culturale, la stessa che ha portato a lungo gli archeologi della fazione più “temperata” alla ricerca di quella mitica grotta dove tutto ebbe inizio, forse rinvenuta nel 2007. Il tentativo è quello di trovare il giusto compromesso tra intransigente storicità ed ingenua fabula, per guardare come guardavano i Romani, e credere in ciò che credevano loro. E se anche gli studiosi più ipercritici devono negare il valore storico del mito, nella grotta del Lupercale rimase reminiscenza di ciò che fu nella festa dei Lupercalia. A metà del mese dedicato alla purificazione (Febbraio da februare, purificare), i Romani mettevano in scena i riti volti ad eliminare le impurità accumulate nell’anno che finiva, secondo un calendario diverso da quello odierno. Un capro sacrificato, non a caso espiatorio, propiziava la fertilità: le piccole strisce in cui la sua pelle veniva tagliata divenivano le fruste con cui i luperci sacrificanti, nudi, colpivano i corpi delle donne, nell’errabonda corsa che intraprendevano lungo la Sacra via.
Ed esattamente nelle prossimità del luogo ove tutto questo si era celebrato più e più volte, nel 330 d.C. l’imperatore Costantino, nella chiesa di Sant’Anastasia, celebrò per la prima volta il Natale cristiano nella data del 25 dicembre. Era un giorno carissimo ai romani, la festa del Sole Invincibile (Solis Invicti), che giungeva al culmine delle celebrazioni solstiziali. Una cristianizzazione del paganesimo?Forse, ciò che è certo però è che dai Lupercalia al Natale cristiano la storia è lunga. Eppure si rimarrebbe stupiti nel verificare con quanta straordinaria coerenza certi conti sembrano tornare. Il luogo ove i gemelli furono allattati dalla lupa, la grotta dei Lupercalia, sul cui sito Augusto, primo imperatore di Roma, novello Romolo per propaganda imperiale, edificò la sua dimora ufficiale; e ancora la festa del Sole che rinasce e quella del Natale cristiano, celebrato nel luogo del Natale di Roma, che rimonta al lontano 753 a.C ma di un giorno specifico, il 21 aprile, quando ricorreva l’arcaica festa dei Parilia, con offerte votive a Pale e dedicata alla nascita dei capretti (da parere, partorire) e alla purificazione delle greggi. Tutto torna mi pare.